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domenica 18 ottobre 2009

In tanti per non cambiare. Il congresso del PD.


Finalmente l'ora è giunta.
Ottobre è arrivato e il popolo fedele del PD si appresta a scegliere il proprio candidato, dopo l'elezione dei vari delegati che voteranno al congresso.
Le primarie si sono concluse e hanno confermato che i rapporti di forza pendono ancora in favore degli ex-diessini, con il candidato delfino di D'Alema, Bersani, in buon vantaggio con il 55,1 per cento, contro il 36,9 di Franceschini e il 7,9 di Marino che consente a quest'ultimo di avere il "quorum" minimo richiesto per essere eleggibile.
Intanto così, arriva il primo dato, riguardo il congresso, fatto esclusivamente per i tesserati e non "esteso" a tutti per paura di condizionamenti esterni (in realtà per paura di non controllare la base del partito, vedi polemica legata alla candidatura del comico Beppe Grillo alla segreteria); si perchè, forse non tutti conoscono nei dettagli il macchinosissimo sistema elettivo del PD che vuole una netta distinzione tra tesserati ed elettori.
Distinzione mica da ridere, che ridimensiona molto l'idea di un partito di tutti, in cui le primarie siano il reale ed unico sitema valido per eleggere il segretario.
In realtà sono i circoli a "decidere" chi poi votare, lasciando gli "elettori" (a cui viene richiesto pure un finanziamento economico..) la "scelta" tra i nomi papabili.
Insomma, primarie si, ma su nomi decisi comunque dalle "elite" del partito.
Alla faccia della tanto sbandierata partecipazione dal basso.
Nonostante una campagna pubblicitaria con investimenti importanti a cavallo delle europee e appunto del prossimo congresso, l'immagine del Partito Democratico ha perso molto del suo fascino e nonostante al suo interno si faccia di tutto per negarlo, non sono solo i numeri di voti persi in percentuale a confermarlo.
Sorrisi in superficie, colpi bassi dietro le quinte.
Tra chi già pensa ad altro, stringendo alleanze sottobanco in vista di una fuoriuscita, vedi Rutelli, Binetti etc, a chi rivendica brogli e "cammellate" nei soliti congressi del sud Italia, in cui pare che il voto ai congressi sia un lavoro retribuito indipendentemente dal partito per cui lo si fa (vedi il congresso di Rifondazione nel 2008), come Franceschini e chi sente odore di vittoria e diplomaticamente elargisce discorsi a destra e a manca sull'unità, sul futuro e via dicendo, come nel caso di Bersani.
Purtroppo, oltre a questo rimane ben poco dal punto di vista politico, le tre "mozioni" si assomigliano tutte, le differenze sono minime, così come è ugualmente nebuloso il futuro del partito e la collocazione politica, così come le possibili alleanze con altri partiti.
All'interno di questo scenario tumultuoso navigano a vista i militanti, che sfoggiano una fedeltà antica ai limiti della cecità, dote probabilmente dovuta all'appartenenza in passato, a due dei più granitici partiti politici italiani del secolo scorso, DC e PCI.
Ma i punti programmatici che dovrebbero unire il nuovo "grande partito riformista italiano", sono poco chiari se non addirittura contradditori tra loro anche per via delle molteplici anime che compongono il partito.
Un partito che non ha, ad esempio, le idee chiare sul nucleare, che si professa ambientalista avendo al suo interno buona parte della dirigenza di Legambiente, ma poi fa dei "termovalorizzatori" (volgarmente inceneritori) il suo cavallo di battaglia, così come ha grossi problemi di identità sul tema dei diritti individuali e sul tema della laicità, avendo al suo interno addirittura personalità politche avverse all'aborto, alla ricerca sulle cellule staminali o addirittura contro le unioni omosessuali.
Per non parlare poi di lavoro e immigrazione, due temi taglienti, in cui il partito rincorre da anni i partiti del centro destra, con misure e opinioni a tratti sconcertanti.
Come spiegare questa schizofrenia di posizioni?
Banalizzando la questione si potrebbe pensare che sia semplicemente l'unione di due partiti con radici diverse, come DS e Margherita a creare una frattura sin dall'inizio, in realtà la situazione è a mio avviso più complessa e nasce dalle finalità stesse in seno al partito.
Il Partito Democratico infatti, nasce con l'obbiettivo primario di governare il paese, spostando l'asse di quest'ultimo verso una meccanica politica vicina ai modelli anglosassoni, una situazione in cui dominano due grandi partiti "contenitore", di massa, e vige la regola "dell'alternanza" tra i due poli.
Il tanto decantato "bipolarismo" o "bipartitismo".
Peccato che la scena poltica italiana sia tutt'altro che così semplice.
Nonostante l'esclusione della sinistra radicale dal parlamento, il PD non decolla, e perde voti sia dal centro moderato che nel campo più puro delle battaglie d'opposizione, rispettivamente verso UDC e IDV.
La questione è pesantemente condizionata dal fatto che il Partito Democratico nasce come soggetto riformista, in un paese in cui la divisione stato-chiesa è labile, dove non c'è nessuna esperienza reale di soggetti partitici appartenenti alla socialdemocrazia europea, dove le sirene d'oltreoceano legate al concetto bipolare della politica d'alternanza su modello statunitense, sono rumorose, ma si limitano solo a posizioni superficiali, mentre la politica vera, quella degli accordi, degli smembramenti e dei rimpasti politici è sempre molto forte e concetto dominante.
Il fatto poi, che prima di avere delle prospettive programmatiche, il partito si divida in correnti di capipopolo, assai diverse l'una dall'altra e in continua lotta per prevalere, non aiuta certo quello che dovrebbe essere l'obbiettivo finale del partito stesso, l'unità programmatica, che dovrebbe permettere la nascita reale del primo partito "riformista" d'Italia.
Un partito che dovrebbe giovarsi del sistema elettivo maggioritario perchè unica "sponda possibile" per l'elettorato, cancellando, insieme al PDL, il resto dei partitini, fuori dalla lotta a due, dei partiti maggiori, ma che invece ancora una volta ha visto come sia impensabile il governo del paese senza accordi di coalizione, (vedi Lega+PDL) e una corsa solitaria abbia solo in un primo momento aiutato il partito, ma alla lunga sia un elemento del tutto insufficiente se non addirittura deleterio.
Ecco che allora, il PD si ritrova ostaggio di se stesso, ostaggio delle sue proposte politiche, contraddittorie e inattuabili.
Paradossalmente la nascita del PD ha rafforzato la leadership di Berlusconi, che puntualmente dopo l'affossamento del secondo governo Prodi da parte di Veltroni (confronto sulla legge elettorale, nascita PD) ha rivinto le elezioni, instaurando un regime mediatico difficile da combattere.
Berlusconi ha così spostato il confronto sul territorio a lui più favorevole, quello prettamente mediatico, mettendo in netta difficoltà il PD che in campagna elettorale arrancava proponendo un programma simile a quello del premier ed escludeva ogni possibile "larga intesa" con altri partiti, non rendendosi conto che il bipolarismo all'americana tanto auspicato era in realtà un'arma a doppio taglio.
Sul tavolo la posta in gioco, dal governo del paese, rapidamente è diventata la democrazia stessa.
Per uscire dall'empasse, oggi i democratici avrebbero bisogno di un approccio e di prospettive nuove, di volti, idee, classe politica nuova.
Ma aldilà dell'immagine superficiale, coloro che muovono "i fili" del partito, sono sempre i soliti vecchi gruppi di potere ex DS e Margherita e non è un caso che forse l'unica novità tra le candidature, Ignazio Marino, sia stata mal recepita dalla base del partito.
Come dire, cambia tutto, non cambia nulla.
Mentre il PD s'interroga su quale strada prendere per uscire dal pantano, Berlusconi attacca ogni giorno la democrazia e nonostante le accuse e i soliti terremoti giudiziari, che periodicamente gli cadono addosso, rimane sempre l'unico vero protagonista indiscusso della scena politica.
Unico attore che ancora, indisturbato, continua a recitare il proprio monologo in attesa di trovare un qualsiasi avversario.
Con il congresso alle porte, indipendentemente da chi sarà il vincitore, il partito rimane un cantiere, basato su fondamenta sempre più traballanti che lascerà al prossimo timoniere, l'ingrato compito, citando lo slogan elettorale di Bersani, di trovare "un senso a questa storia".
Staranno però gli italiani ad ascoltare?
Vista la crisi mondiale di tutti i partiti socialdemocratici è lecito dubitarne.

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