Finalmente si è sbloccato, alle ore 21 e 38 del 19 aprile, il caso, ormai estenuante del cargo di nazionalità turca, Pinar.
Venti immigrati e il cadavere di una donna incinta, sono finalmente sbarcati sul territorio italiano.
Erano quattro giorni che il cargo turco aveva preso a bordo un gruppo di 147 persone da due barconi che stazionavano, in condizioni già limite dell'emergenza sanitaria, tra i confini territoriali di Malta e dell'Italia.
Il Pinar è diventato suo malgrado, il simbolo di una contesa burocratica tra due paesi che hanno perso di vista fin da subito la gravità di una situazione in cui sono coinvolte un centinaio di persone considerate alla stregua di carico mercantile qualsiasi, come fossero un'ingombro di cui poter discutere in tutta calma.
Mi viene da pensare cosa sarebbe successo se le persone che sono a borgo della nave battente bandiera turca, fossero dei semplici turisti su una nave da crociera e non un gruppo di clandestini in cerca di fortuna nel continente.
Probabilmente il trattamento sarebbe stato molto diverso e tra Malta e Italia non ci sarebbe una corsa ad un contenzioso l'una contro l'altra con richiesta d'intervento dell'UE, ma ci sarebbe tutt'altra corsa, quella all'attribuzione dei meriti, della tempestività nell'intervento etc.
Per quattro giorni, su quella barca gli unici esseri umani sono stati i componenti dell'equipaggio turco, gli unici in possesso di un'identità, come se nel mondo di oggi anche il fatto di avere un corpo, una mente, una presenza fisica, non bastassero più, senza un foglio d'accompagnamento che definisce chi sei.
Sul Pinar ci sono 140 fantasmi, che hanno una vita, una storia, un nome, ma che per le autorità dei paesi coinvolti, non esistono.
Di fronte alla vita, vince nuovamente la burocrazia.
Poco importa, se su quella barca, vi sia il cadavere di una madre, ormai deceduta da giorni, con in grembo un figlio che non nascerà mai, insieme ad un gruppo di disperati di tutte le età, al limite delle proprie forze e in situazioni precarie di salute.
Una situazione che si risolve con la semplicità delle parole dell'armatore del cargo, Baris Erdogdu che dice: "Il Pinar è un cargo, non è attrezzato per questo tipo di circostanze e la situazione potrebbe solo peggiorare. Ci avevano detto che sarebbero intervenuti per rimuovere il cadavere, ma non è stato così. Che facciamo? Rimaniamo in attesa che qualcuno altro muore prima che si decidano ad intervenire? Sarebbe più logico far sbarcare prima gli immigrati e poi risolvere il contenzioso".
Invece pare proprio che sia più importante capire chi si dovrà "accollare" l'oneroso carico umano, un carico di esseri umani che nessuno vuole, che contano meno della misurazione territoriale delle acque, indispensabile per capire quali siano le acque più vicine, se quelle maltesi, o quelle italiane.
Con questo nuovo caso di emarginazione, simile a tanti altri, in questi anni in cui i governi di tutto il mondo rifiutano clandestini e immigrati, si ribadisce come, se si è poveri, non si abbia diritto a nulla, si riesca invisibili al mondo dei ricchi, l'unico possibile.
L'unica visibilità arriva solo con il pietismo, l'elemosina dei media, a un corpo straziato senza nome, come quello della ragazza nigeriana di 18 anni che nel lungo viaggio dalle coste della Libia, aveva sognato probabilmente un futuro migliore per lei e il figlio che portava in grembo.
Poco male, rimarrà per noi tutti cittadini dell'occidente ricco, solo un fantasma senza nome, compianto per qualche minuto, prima del servizio successivo di cronaca.
Un numero tra i tanti, tra i tanti morti che popolano i fondali di quella valle di lacrime che in questi anni, sta diventando, sempre più tristemente, il Mar Mediterraneo.
domenica 19 aprile 2009
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento