Di fronte all'immagine qui a fianco, molti di noi, sconcertati, presero coscienza della protesta studentesca che nel 1989 scosse la Cina, rivendicando la libertà d'informazione contro il regime comunista.
Ebbene questa stessa immagine a distanza di dieci anni, potrebbe avere un altro significato.
E se nessuno mette in discussione il fatto che in Cina purtroppo non ci sia libertà di espressione e ci sia un governo repressivo di ogni forma democratica di contestazione al suo operato, va anche però recuperata la capacità di analisi approfondita, quella capacità che ci permette di vedere le cose nella loro forma ultima, scevra da ogni condizionamento politico, economico, storico o d'immagine.
Un'interessante spunto diverso da quello che ci è stato proposto per anni (e cioè quello di una protesta esclusivamente basata sul conflitto a favore della libertà d'espressione contro un regime totalitario) lo introduce nel suo libro "Shockeconomy" ( 2007, editore italiano Rcs libri), la bravissima giornalista canadese Naomi Klein.
Proprio l'autrice del celeberrimo "No Logo", s'interroga su una delle questioni più emblematiche della caduta dei regimi totalitari comunisti e socialisti e ne fa, insieme ad altri esempi emblematici (vale la pena leggere il suo libro), un'analisi lucida, che vede proprio nell'episodio di piazza Tianamen una sintesi fondamentale, di come l'affermazione del pensiero "unico" capitalista a cavallo tra gli anni 90/2000 abbia determinato la visione d'insieme di alcuni fatti di cronaca nell'opinione pubblica, che di colpo divennero non solo atti di denuncia, ma anche frecce nella faretra dell'affermazione del capitalismo come unica e possibile scelta economica libertaria e di governo.
Tutto ciò che era diverso era male.
Nazionalizzazione, socialismo, erano termini che sembravano alla fine dei '90, dei residuati di un'epoca arcaica fatta di ideologie ammuffite, di sogni infranti in bocca al "Leviatano" totalitario che in virtù della sua sopravvivenza autoreferenziale, ingurgitava tutto, a partire dalle libertà individuali, fossero d'espressione o economiche.
Bene, Tiananmen divento il simbolo immaginifico di tutto ciò, di come cioè fosse impossibile, sotto una forma di governo non capitalista, avere libertà, successo economico, diritti individuali, stampa libera.
E se vi dicessi che la protesta di piazza Tienanmen fu solo in parte la rivendicazione di tutto questo?
Ma che anzi, quella stessa protesta abbia in comune molti punti di contatto con la crisi economica di oggi?
La protesta di piazza Tiananmen fu solo limitatamente, se non per niente, influenzata dalla lotta per la libertà di espressione, ma fu la protesta di un popolo affamato dalle tasse e dalla manovra economica che in quei mesi il governo cinese varò e che ebbe conseguenze devastanti sulla pelle dei lavoratori cinesi, che si ritrovarono da un momento all'altro a passare senza poter decidere minimamente nulla, da un sistema economico pianificato di stampo socialista a di uno di stampo liberista, capitalista nel senso più ampio e crudo del termine.
Per alcuni mesi in Cina fu attuata una "tabula rasa" economica che rivoluzionò di fatto il sistema economico e lo sviluppo del paese.
Chi ordì tutto questo?
Pare incredibile, ma furono proprio alcune delle lobby più importanti a livello mondiale con l'appoggio nascosto del governo degli Stati Uniti.
Grazie ai teorici della famigerata "scuola di Chicago", economisti dell'università omonima, che facevano capo a Milton Friedman, acclamatissima figura negli ambiti dei "think thank" americani, che con la sua "visione del mondo"in cui si privilegiava come unica forma possibile di governo il libero mercato, ha condizionato quasi trent'anni di politica estera degli USA e pesantemente influito sulle scelte dei governi e del loro approccio all'economia della "globalizzazione".
Friedman da teorico del libero mercato ha messo lo zampino praticamente in tutte le destabilizzazioni politiche di stampo economico sostenute dagli Stati Uniti in maniera più o meno esplicita, dal Cile di Pinochet all'Argentina di Varela, per arrivare alla Polonia e alla Russia post sovietiche fino alle "guerre al terrorismo" più recenti, come in Afghanistan o in Iraq.
In Cina il capolavoro fu assoluto, trasformare l'economia pianificata di un paese comunista, da sempre chiuso nei confronti dell'esterno per tradizione sociale, nel più grande mercato capitalista deregolamentato.
Fu proprio la deregolamentazione del lavoro, i licenziamenti di massa, la "crisi" controllata, lo smantellamento delle strutture statali, trasformate in industrie e aziende private, che furono il vero oggetto delle proteste.
Da qui la furiosa repressione che tutti con i nostri occhi "televisivi" abbiamo visto e rivisto, che causò migliaia, forse decine di migliaia di morti e qualche centinaio di migliaia di incarcerati per dissidenza al regime.
Dissidenti che protestavano quindi non contro il comunismo e la sua forma totalitaria, ma incredibilmente proprio contro la sua trasformazione selvaggia nel più puro capitalismo liberista senza regola.
Il sistema era cambiato, ciò che invece rimaneva invariata era la mancanza vera di libertà in qualsiasi forma, prima a protezione di un regime ideologico, ora a protezione di un sistema economico e di una casta che in un attimo, da casta politica diventò "casta economica".
Sì perchè, tutti quei funzionari e dirigenti di partito che facevano parte dell'elite politica divennero improvvisamente ricchi proprietari di beni pubblici, "trasformati" in gruppi privati, cioè divennero in un colpo solo grossi lobbysti, grossi imprenditori.
Tutte queste misure che in un primo momento furono scambiate dal popolo cinese stesso, in nuove possibilità di vita e opportunità di lavoro, ben presto vennero riconosciute per quello che erano e insieme ad alcune decisioni impopolari del governo dell'allora presidente Deng, furono al centro di violente proteste.
Da lì la repressione, "consigliata" dagli stessi economisti della scuola di Chicago sul modello del Cile di Pinochet, ai vertici cinesi, per non "disperdere il buon lavoro fatto fino ad allora".
Fu così che la Cina di Mao si trasformò nel paese dei balocchi delle multinazionali, dove la mancanza di diritti e regolamentazione del lavoro, di controlli, di basso costo della produzione furono l'età dell'oro del capitalismo degli anni 90 e posero le basi per l'esternalizzazione del lavoro e dell'avanzata dell'economia cinese, fino a portare quest'ultima a diventare una delle nuove "Tigri" asiatiche.
In mezzo a tutto questo oltre al progresso economico, morte, sfruttamento, illegalità, inquinamento, distruzione del mercato mondiale del lavoro, competizione sleale, tra il terzo mondo e i mercati occidentali, in favore del guadagno di poche grandi lobby.
Guardando la crisi economica attuale, la Cina dell'inizio degli anni 90 riassume bene il capitalismo estremo ed esasperato ai sui massimi livelli che oggi saturo del suo stesso sistema fagocita l'economia mondiale.
Un capitalismo ormai, che la propaganda non riesce più a coprire dalle falle di un modo di operare univoco, unilaterale che ha portato in dote in questi anni, una scia di sangue e morte e una povertà dilagante, realtà preoccupante per una fetta sempre più larga di persone anche nell'ex "dorato" mondo occidentale.
martedì 24 marzo 2009
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