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mercoledì 3 marzo 2010

La regressione dei diritti non si ferma. Ora tocca all'art. 18.

Le notizie che fanno scalpore in questi giorni sono altre, dalle fibrillazioni politiche delle liste Pdl, alla morsa che il governo stringe sull'informazione, bloccando i talk show, per arrivare alle solite e scontate notizie di cronaca nera.
Eppure, la notizia che realmente coinvolge la maggior parte delle persone nel nostro paese, direttamente o indirettamente, passa quasi in sordina.
Probabilmente anche grazie al solito "fumoso" modo di informare degli organi mediatici del nostro paese.
Sarebbe interessante chiedere, per strada, alle persone, cos'è, l'articolo 18, a cosa si riferisce esattamente.
L'articolo 18, per chi non lo sa (e dovrebbe saperlo) è il diciottesimo articolo  del cosiddetto "Statuto dei lavoratori" (ci si riferisce alla legge n. 300 del 20 maggio 1970 denominata così), in realtà una norma del cosiddetto Diritto del Lavoro, quella parte giuridica che si è occupata e si occupa di definire e tutelare le forme del lavoro nel nostro paese, garantendo i diritti di lavoratori e lavoratrici indipendentemente dall'ambito in cui essi svolgono le loro funzioni lavorative.
L'articolo 18 parla nello specifico delle tutele sindacali dei lavoratori nei confronti delle aziende durante e sopratutto alla fine del rapporto di lavoro, un articolo che mette un freno alla possibilità di licenziamento da parte dell'azienda nel caso non ci sia "giusta causa".
Non è errato definire questo stralcio dello statuto come uno dei punti fondamentali e una delle conquiste maggiori, raggiunte dal diritto lavorativo e dalle lotte sindacali in Italia da sempre.
Un articolo, che più di una volta è stato alla ribalta della cronaca, in una contesa pluriennale tra le forze sindacali, i governi e l'imprenditoria, a dimostrazione di come sia quest'ultimo, un punto nodale dello scontro tra aziende e sindacati.
Paradossale il fatto che proprio le forze del centrosinistra con l'ormai celeberrimo "pacchetto Treu", abbiano cominciato a minare i diritti del lavoro, sdoganando il precariato e il lavoro interinale, in una escalation di "smantellamenti" che sono arrivati anche a questo "caposaldo" della tutela lavorativa; per la  cui rimozione,  lo stesso Treu, oggi ha espresso parole piene di preoccupazione.
Una "rimozione" che è improprio definire così, dato che il disegno di legge preparato dal governo Berlusconi da oltre due anni, non elimina di fatto l'articolo, ma lo "aggira" introducendo un altra figura che si affianca al giudice (garante tra lavoratore e azienda in caso di contesa) ovvero un arbitrato che in caso di scelta del lavoratore riguardo questa "possibilità",  giudicherà in tal caso un'eventuale contesa.
Detta così sembra cosa complessa e magari potrebbe pure apparire come equa o ininfluente ai fini del risultato, mentre la realtà dei fatti è molto più semplice.
L'arbitrato, elemento alternativo a quello giuridico tradizionale, può essere scelto all'inizio dello stipulamento del contratto tra lavoratore e datore di lavoro, con l'inserimento di una clausola apposita.
In parole povere, alla firma del contratto questa clausola potrebbe essere una "discriminante" per il lavoratore, obbligato a scegliere la forma dell'arbitrato, per eventuale contesa, pena la mancata assunzione.
Con ciò si metterebbe in mano la sorte lavorativa del lavoratore ad un soggetto esterno, quasi sicuramente gradito al datore di lavoro che,  potrebbe scegliere di appoggiarsi ad un arbitrato o ad una camera arbitrale di suo gradimento, inserendola fin da subito come futuro garante in caso di contesa.
In pratica, con l'introduzione di questa norma, si darebbe un  potere maggiore all'imprenditoria che potrebbe risolvere i rapporti di lavoro senza aver bisogno di motivi apparenti, una norma che aumenterebbe ancora di più la portata devastante del precariato in un mondo lavorativo già pesantemente incerto.
La levata di scudi è stata molteplice, da parte dei sindacati, dai partiti "d'opposizione" e dai sindacati maggiori con varie dichiarazioni sui media nazionali.
Quello che preoccupa è il tono dimesso e sopratutto la mancanza di un'adeguata informazione a cascata sulle persone.
Sappiamo bene come, tatticamente, in questi anni non solo CISL e UIL, ma anche CGIL abbiano avuto un atteggiamento ambiguo a seconda dei colori dei governi su certi temi, arrivando addirittura a non sostenere i referendum abrogativi del 2003 che volevano abolire il numero minimo per usufruire dei benefici appunto dell'articolo 18, estendendo tale "dirittto" anche ai lavoratori di aziende sotto i 15 dipendenti (ormai la maggioranza in Italia), referendum promossi all'epoca da Rifondazione Comunista e boicottati dall'ex sinistra Ds oltre che da CISL UIL e sostenuti solo in extremis da CGIL.
Non stupisce quindi che si sia arrivati a questo punto, ormai critico, quasi senza colpo ferire.
In un momento in cui la crisi economica morde ancor più duramente, come al solito si tutela chi ha il "coltello dalla parte del manico" cercando di snellire la burocrazia del mercato del lavoro con la scusa di voler aiutare l'economia a ripartire.
Peccato che gli unici "fardelli" da cui liberarsi paiono ancora e soltanto i lavoratori, sempre più avviati, grazie a questa normativa, nel caso passasse, ad una vita da precari, indipendentemente dal tipo di contratto.
Di tutto questo, se ne accorgeranno gli italiani?
Ne dubito fortemente.

1 commento:

  1. era già tanto chiederlo prima agli italiani di essere informati su questi fatti, figuriamoci ora nel silenzio totale dell'informazione!
    un saluto

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